sabato 21 marzo 2015

BLIND BEAST - Y.Masumura, 1969

Michio è uno scultore cieco che sfrutta la sua spiccata sensibilità tattile per creare una forma d’arte a suo dire innovativa a cui si dedicherà anima e corpo. Ossessionato dai nudi  femminili e deciso a plasmare il suo capolavoro, rapisce una modella di nome Aki, con l’aiuto della madre. La giovane, dopo un primo momento di riluttanza, viene trascinata nel mondo dell’artista fino a farne parte completamente e volontariamente. Il piano di Michio lascerà spazio ad una passione travolgente e malata che condurrà i due amanti in una spirale di orrore senza fine.

Trasposizione cinematografica di “Mojiu”, romanzo del 1932 scritto dall’autore giapponese Edogawa Ranpo, “Blind Beast” vede la luce nel 1969, in un periodo in cui iniziavano ad affacciarsi sulla scena orientale pellicole dai contenuti forti ed espliciti (il cinema di Koji  Wakamatsu ne è un esempio). Yasuzo Masumura sfrutta un plot
relativamente semplice per costruire un’opera visionaria, eccentrica e spiazzante. Bizzarro  ma  dall’animo buono e gentile, Michio vive in totale solitudine assieme alla madre, che rappresenta il suo unico punto di riferimento non solo genitoriale ma anche sociale. Di fondamentale importanza per la buona riuscita del film è la location in cui si svolge gran parte della vicenda: uno spazio non ben delimitato che funge da studio dello scultore e che ospita un numero indefinito di sculture raffiguranti varie parti anatomiche femminili. Il buio che avvolge i due protagonisti viene spezzato da sprazzi di luce che mostrano, in una continua alternanza cromatica fatta di contrasti chiaro-scuro, arti, nasi, bocche e seni argillosi attaccati alle pareti, nonché due enormi busti –uno prono e uno supino – al centro della stanza. Una rappresentazione suggestiva e surreale che rivela come la passione di Michio si sia in realtà trasformata in una necessità tanto morbosa quanto vitale. In un ambiente claustrofibico e del tutto avulso dalla realtà, la storia si sviluppa attraverso un intreccio narrativo dal ritmo lento ma funzionale non solo alla comprensione della psicologia dei personaggi ma anche alla natura del rapporto che si instaura tra i due. Quello che nelle fasi iniziali è il classico gioco di potere tra vittima e carnefice, muterà in una collaborazione malsana che prenderà piede non appena Aki, tormentata da sentimenti ed emozioni
contrastanti, deciderà di  perorare con convinzione la causa del suo aguzzino ed involontariamente colmerà il vuoto esistenziale dell’uomo. Il regista mette in scena una realtà spaventosa, mostrando come l’essere umano, se sottoposto a condizioni estreme, possa essere mentalmente manipolabile e psicologicamente suscettibile, al di là di ogni immaginazione. In uno stato di isolamento totale, imprigionati nel loro microcosmo fatto di argilla ed oscurità, i protagonisti abbandoneranno ogni barlume di umanità e raziocinio ed andranno incontro ad un destino raccapricciante. La percezione distorta degli stimoli e delle sensazioni più viscerali spingerà i due amanti ad una ricerca sistematica e compiaciuta del piacere attraverso modalità non convenzionali, fino a quando non approderanno ai lidi del sadomasochismo più spinto. Così come non esistono limiti di spazio e di tempo (non si ha infatti nessun riferimento temporale), non sono contemplati confini alla decenza e alla moralità ma soprattutto alla sopportazione del dolore. In un’escalation di follia si consuma un dramma disumano, consapevolmente finalizzato ad esplorare, anche a costo della vita stessa, nuove e sempre più estreme forme di appagamento. Tutto questo si traduce in una raffigurazione poetica della vita e della morte, che Masumura ci trasmette attraverso l’eleganza della fotografia e la raffinatezza della scenografia, le quali – seppur in un contesto forzatamente statico –, incorniciano egregiamente una storia in continua evoluzione fatta di amore, sofferenza, tragedia ed estasi. Nonostante si noti un’insistente ricercatezza di stile che tende a soddisfare un gusto estetico a tratti manierato, lo scenario puramente immaginifico che fa da sfondo alla vicenda si dimostra una base essenziale su cui costruire un’atmosfera malata e allo stesso tempo avvolgente ed alienante. “Blind Beast”, attraverso infinite sfumature, stuzzica una certa brama vouyeristica, fondendo l’erotismo con l’arte e il desiderio metafisico con l’appetito carnale. Un film visivamente potente e in largo anticipo sui tempi, che in termini di estremismo concettuale supera di gran lunga molte opere più recenti.